martedì 9 luglio 2013

La Passione del Pellegrino (#9)

L'aria, pesante in quella stanza, si contorceva di una quiete maniacale,
in un abisso ad interporsi tra i due mondi, di pace e di resa inoppugnabile,
e di debiti su hitleriani imperativi, affannando la vista di quella luce fioca
che traspariva dalle imposte quand'è già mattina.
Spasmodici episodi, nella stanza là di sotto, si contemplavano,
d'un'esibizione mai sperimentata neanche dalle terre più remote,
né nei villaggi dei tempi lontani.
Il tumulto andava avanti da giorni, nella sua turbolenza iraconda
e dunque un po' corrosa all'interno delle proprie viscere
d'un peso che la coscienza non poteva più sopportare,
stanca, sporca, avvilita,
da un coltello che aveva ben affilato la propria lama, nel tempo in cui decise
di andare più a fondo nel seguire il proprio sentiero.
Dolce, come la lacrima di una luna di vivo argento, la lama d'acciaio,
cocente del bollore dei propri spiriti rinsaviti, muoveva la propria spinta in direzioni ardite,
anche per coloro che bravi del loro coraggio s'erano mostrati già in passato,
là dove mai alcuno avrebbe più cercato quel puro luccichio,
sporco, adesso, di un sangue ferito nell'orgoglio, d'una delusione, d'un pentimento,
che in quel luogo perdevano la vista.
Celata tra i rovi, folti e acerbi, che si accompagnano al passo vertiginoso,
la pena inflitta giaceva latente da giorni e giorni, in una stanza che s'era fatta foresta
per l'innesto dei rami e dei rampicanti, fermentati in tale abbandono
da un sentimento forte e impetuoso, volto, monolitico, verso il proprio bersaglio,
per compiere, stolido, quell'opera di conquista che si prefiggeva già da tempo.
L'opera esibiva dunque una sinfonia del tempo, in cui, ad ogni stacco ed ad ogni battuta,
si curava, con gran premura, di infiggere polvere in un vaso che più tenuta non recepiva
e che dava, allora, stremato, attacco ad un fuoco così depravato e assai dissoluto
nel presentarsi con tale forma convulsa, privando, senza indugio,
d'ogni ristoro il povero viandante, orbo di veduta.
La campagna poneva lo sguardo al conflitto ultimo, agognato,
in una spedizione giunta al termine,
con la coscienza d'esser posta al varco della cecità e della veggenza,
d'un esistere fatto di confini ben marcati, e lacerati, già oltre quel che vi si potesse conferire.
Restava quindi quel barlume, teso, pallido, scialbo e ricalcato, d'una penna assai ossessiva
nel ricreare i lineamenti di ciò che poteva esser donato e che mai fu ricevuto,
in uno stato d'illusione e cedimento al nubifragio, che la cute stessa si rendeva lesta a testimoniare
e che l'addome prendeva in seria investitura nel suo teatro d'oscenità sublime, da render gioia
ad un più diletto Divin marchese, ligio goditore della scena più angosciante.
La luce fioca del mattino prendeva, dunque, il verbo, di ciò che dipingeva la sofferenza d'un infelice
stretto alla veglia, nel far luce, delle possibilità e delle lacune conquistate, per sopravvivere,
coi propri mezzi, alla stretta annichilente del destino, ferreo nel rinfacciare acutamente
le omissioni e le ottemperanze inadempiute, coi più cruenti artifici; austero, non curante
del lamento indolente d'un servo, congiunto alla propria sorte e assai sincero
nel voler mettere a sacrificio la propria salma per un gesto assai dovuto.