domenica 21 dicembre 2014

Coro degli Angeli: L'Accecante Vetrificazione

"Perchè cosi attratte dalla luce?
Pensate forse sia questa a concedervi la grazia?

No,
siete voi stesse,
siete voi che dovete salvarvi per miserabile costrizione.

Per cosa?
Per nulla,
nient'altro.



Così brucerete soltanto."

giovedì 20 novembre 2014

A Torinó Kutya

Tenere i piedi saldi in alcun posto,
questo navigare
è il mio sadico racconto.
Sospeso in torrioni,
tra le funi,
dalle stanze più buie s'offuscano i vetri;
non è più vero ciò che osservo.
L'infausta creazione di un mondo che non ha più confini, 
né termini fragili,
in cui sia possibile affossare alcun appoggio.
Sì ch'ogni parte non m'appartenga,
che conceda alla vista
soltanto margini più stretti;
nulla è più ciò che mi circonda.
Muovendomi senza le redini
disperdo le parti,
in quanto vittima sacrificale,
mi offro alla stregua
di un più congegnato incrocio,
mi spengo,
mi lascio affondare tra i machiavellici risvolti di questo insano frutto.
Come in una zattera,
in un continuo spostarsi, sempre più in là...
Mi arrendo con malinconia
alla gioia più cupa,
conscio d'aver perso la geografia d'ogni posto;
è così che attendo solerte
l'arrivo d'ogni luogo in cui sia concesso respirare
per poi raccogliere il fiato.
È un tuffo nel vacuo,
intenso,
intriso in un flusso che circonda ogni mio arto,
si beffa di me,
mi lascia vuoto e senza fluidi che possano scioglierne il pianto.

Un involucro vuoto
così che tutto lo attraversi.
Né difese, né comandi,
tutto scorre attraverso.
Si trascinano le parti
esterne, vuote, senza meta,
spogliate d'ogni patria d'appartenenza.
Riaffiorano visioni dove ogni soggetto è terzo,
è a parte, mai parte,
e non si placa l'oceano ora privo di consistenza.
L'una regola è tale
e di lei è untuoso ossequio e riverenza.
D'essa, gli arti si muovono ad arte,
là sotto, laddove sommersa è la vista,
un demiurgo stringe le sorti,
si muove in disparte,
le intinge della più florida indifferenza.
Di una platea vuota
non si nutrono le gesta del burattino,
il burattinaio,
egli osserva, sommesso e silente,
attende il via del commediante.
Come un tempio, lo spettacolo è in silenzio:
gli attori, il drammaturgo,
il commediante,
finanche colui che stende il velo,
attendono inermi che il tempo s'addormenti,
così che l'attimo s'addensi,
e che qualcuno, fiducioso, si affretti a passare;
e nello sporgersi per le strade,
tra i convenevoli appariscenti,
si chiudono in osservanza
dove i sensi rattrappiscono.
Colui che attratto s'avvede a scrutar dentro
si porta in cerca di un significato,
vi trova polvere e catrame,
in cerchio
avvolte da un violento respirare.

Nessuno è in casa adesso, nessuno è al proprio posto.




sabato 11 ottobre 2014

Aus Milchstraße

Scusami se muoio, ogni tanto,
ricoperto di mille foglie.
Così disegno l'uscio entro il quale sgattaiolerò via,
una coperta fatta di deplorevoli cadute:
quando arriva l'inverno, gelido, raggelato,
inerme il mio corpo si attarda fino a notte.
E non guardo più intorno
neanche in cerca di un conforto,
un po' comodo, ma dovuto
da una riluttante natura fatta degli scheletri più fragili.
Mi immergo tra le fronde
cullate dallo specchio in cui rifletto ogni immagine
del passato, del presente, del futuro,
d'ogni cosa che sia tratta al proprio posto.
Ogni immagine è di me
attento, attonito, attempato,
rappreso, nell'atto indomito
del rilegarmi attorno ad ogni verso,
seppur spento e decantato
in una voce fievole e decaduta
da cui ogni fioca luce s'espande,
per poi rivolgersi al massacro, stringendo i fili del proprio corpo.
Mi arrendo allora
e mi spengo da questa vita col fare di colui
che non l'aveva mai chiesta.
Mi dico,
questo è un filo che non ho mai sciolto
e che eppure mi attengo a risalire ogni giorno,
estasiato, disilluso, atteso, fra la più pura ansia di esistere.
Chiudo gli occhi e poi osservo,
attendo che le onde mi riportino laddove
secondo il susseguirsi, è dato concedersi,
senza ch'io possa d'esse rifiutare
un invito così candido e curato, ad immergermi nella loro morsa,
un intenso scambio vivo
in un oceano in cui in zattere ci s'è perduti
e pure il retto corso d'ogni nave ha reso pochi sopravvissuti.

giovedì 28 agosto 2014

Il Miracolo del Diniego

L'antefatto fu pertanto
ch'io nacqui sbagliato,
poiché, di fondo, io scelsi l'inferno
quale retta via capovolta, da cui concedermi il conforto.
Se precetto fu tale da rendermi comunque vano,
ecco allora che il concetto di cui avvalersi beatamente
fu rivolto, senza tregua, allo sguardo di un profano.



lunedì 4 agosto 2014

Obiezione di un Décadent

E' la disarmonia che crea la vita.
Ciò è indubbio.

Il mondo tende più al disequilibrio che al riequilibrio.
Così sono anche le forze, le parti, l'antimateria e la materia.
Se queste due collimassero e si disponessero in parti uguali, giungerebbero ad annichilimento.
Armonia vi è dunque, ma possibile soltanto dal disequilibrio.

E' ciò dunque altresì definibile come armonia?
A me pare sia più una sorta di stonatura che ha trovato in una nuova forma una propria armonia ed il proprio equilibrio.
Disequilibriamo forze, pur di poter provare di esistere.
L'universo stesso stravolge il giusto corso armonico dei versi, pur di poter provare che qualcosa sia tangibile.

Così come queste, anche l'esistenza umana è concepita secondo questo schema ben definito.
Ognuno è vittima ,ed allo stesso tempo causa, delle proprie sventure.
Tutti nasciamo vittime di ciò che è stato imposto noi, genitorialmente, culturalmente, socialmente.
E la stragran maggioranza degli individui è così adattata ad una tendenza generalmente discordante dal concetto d'equilibrio od armonia che si voglia.
I due non sono propriamente sinonimi,
eppur spesso si avvicinano nell'intento, a discapito del contesto, chiaramente.
Vi può essere armonia senza alcun equilibrio o vi può essere equilibrio senza alcuna armonia?

La risposta è soggettiva forse, in entrambi i casi.

Gli individui ordunque tendono in gran maggioranza al disequilibrio, alla disarmonia.
Né è testimonianza inoppugnabile la posizione orrifica in cui è giunta l'esistenza umana fino a questo punto.
Lo stato in cui la terra è lasciata poltrire è tutt'altro che armonico, questo è chiaro.
Lo stato in cui la società civile umana è lasciata poltrire, è tutt'altro che armonico, anche questo è chiaro.
Lo stato in cui l'essere umano stesso, l'individuo nella sua totalità, è lasciato poltrire, beh,
anche questo è chiaro, ed è anche una delle possibili cause che determinano tutte le altre.

Scegliamo tutti indubbiamente di perderci nell'oblio dove le parti non combaciano.
Attraverso un microscopio, quello dell'intelletto sia chiaro, è possibile poi concepire come questa scelta apparente sia in realtà dettata da altro.
Di come gli elementi sopraelencati, siano causa e concausa di questa ed altre scelte di cui non si è coscienti.
E di chi è allora la colpa?
Chi tende la freccia verso questo stabile stato in cui l'instabilità di un equilibrio precario, e talvolta mai raggiunto, fa da padrone indisturbato nel corso di tutta una vita intera?

Si tratta forse di una trappola ricorsiva in cui tutti siamo cascati senza che mai ci si rendesse conto.
Di un eterno ritorno in cui tutte le cose si presentano uguali come fonte e conseguenza.
Di una coazione a ripetere all'infinito della storia dell'umana amara sorte, volta verso la negazione di una libertà di una natura, che più volte ha chiesto appello per poter svolgere il proprio corso.
E chi scorge l'armonia e chi si fionda sull'equilibrio non è mai scorto abbastanza.
Viene messo al margine, al più etichettato come folle o non appropriato.
E' questa la storia della strana amara sorte, della vita umana e dell'attesa per la morte.

E' forse la morte la degna causa di tutto questo inumano addensarsi?
Sarebbe una soluzione troppo banale di per certo.
Eppure è la fiaccola che alimenta questa spirale della vergogna.

E' forse questo un modo per concedersi maggior spazio al suo posto?
Forse è l'ipotesi più plausibile.
Come se la morte fosse un equilibrio, e come se le parti la raggiungessero una volta combaciate.
Ecco fondersi la materia e l'antimateria calzante, e dal passo sempre fiero, verso il velo della morte.
E' un po' il simbolo dell'umana sorte.

Ecco dunque che il disequilibrio è la chiave per concedersi un lusso.
Nella disarmonia, nel perdersi, nel non ricordarsi del triste fato che vorrebbe non farci esistere.
in ciò vi è il lusso più grande che sia permesso.

E' quasi un errore si dice, se la materia si è formata.
Di certo in natura, gli errori non esistono,
ma forse dunque tutta la vita è un errore.

Ecco allora la chiave del mio disequilibrio,
c'è più verità in disarmonia che in armonia.
Secondo la più bieca vista, l'occhio vede più decadenza che sostanza.
E' la legge della maggioranza, della selezione.
Ed è assolutamente più che umana la cecità mentale.

Ecco allora tutta l'onestà della mia dissonanza,
se tocco il centro per dissolvermi
cerco la direzione opposta per sottrarmene beatamente,
e per concedermi il più estremo lusso che mi sia ancor più concesso:
perdersi nella decadenza,
giusto appena per poter "sentir" qualcosa.

a proposito di armonia..

giovedì 31 luglio 2014

Delirio #5 - Fine

Giacciono tutti,
seduti,
in attesa del convoglio.
Chi si concede, chi si trattiene,
colgono tutti l'occasione
per dissolversi e congedarsi,
lasciare il campo da questo svolgersi immutabile
e dal fine assai immorale.

Non si può essere Re per sempre.

Medicina
RARASALMOLIGETENO
GELTANIHCMEDICANIE
RALUCEDESCRIDEISE

domenica 6 luglio 2014

Nenia Mantrica Perpetua

Io penso che morirò pazzo e solo.
Scorre lungo l'addome
come un filo di tintura su una tavola frammentata.
Io penso che morirò pazzo e solo.


domenica 22 giugno 2014

Viaggio a Narkè

Fino a che non esista
si assiste al trionfo.
Tristi sorrisi consumati,
mai nulla a coinvolgersi nel tempo.
E tu mi togli il respiro
dalla tua immagine riflessa;
la veglia è un lungo viaggio,
bramosia di memorie
e disegni più intensi.
Mi fermo qui allora
dove non vi è spazio alcuno;
solo immagini di me.




                                      

lunedì 26 maggio 2014

Delirio #4 - Spoglie

Tu non vedi,
tu dici di vedere.
Tu non guardi,
tu dici di guardare.
Tu non osservi,
tu dici di osservare.
Tu non scruti,
tu dici di scrutare.
Tu non percepisci,
tu dici di percepire.
Tu non leggi,
tu dici di leggere.
Tu non cogli,
tu dici di cogliere.
Tu non penetri,
tu dici di penetrare.
Tu non senti,
tu dici di sentire.
Tu non t'immergi,
tu dici d'immergerti.
Tu non ti perdi,
tu dici di perderti.
Tu non t'ubriachi,
tu dici di ubriacarti.
Tu non ti accendi,
tu dici di accenderti.
Tu non ti consumi,
tu dici di consumarti.
Tu non soffri,
tu dici di soffrire.
Tu non comprendi,
tu dici di comprendere.
Tu ti affacci con gli occhi
di chi non conosce lamento.
Eppure,
ti affoghi in uno strazio.
Tu non muori,
tu dici di morire.

Medicina
TEGALESCECTISILE
IMONOLCAOSNENIC
CITIOSMALES


martedì 20 maggio 2014

Delirio #3 - Cretino

E' che si diletta lui
di fagocitare le cose
e non farle.
Assumere la posizione
nel non fare ciò che si dovrebbe.
Si diletta lui,
si pervade
di tentazione, perversa,
nel suo incedere,
incessante,
sedere immobile
e guardare.
L'assenza
è così fondata
dal suo eroe,
nel peso di non essere
pur di essere a sé stante.
Fare dunque,
per riuscire a non fare
ciò che lui comprende;
è che lo sazia
discernere il suo essere
dal suo non esserci.
Soltanto ciò
è compimento dell'incompletezza,
sia essa tale da completare
l'incompleto
che giunge in lui
dall'irrequietezza esistenziale,
ciò che rivela tutto il suo vero io,
che pur d'essere davvero Io,
s'avvede, fa sì, di distogliere ogni certezza
sbiadita da disillusione che non gli appartenga,
seppure in essa si ravveda del luccichio,
pur falso in se stesso, poiché già consunto
da una più decantata stirpe.
Distoglie lui
lo sguardo decantato,
siede, sbirciando serrature
si osserva, e non si vede,
mai quanto vorrebbe,
accende il buio
e dunque allora non si comprende.
E di nuovo
comincia il gioco,
stanco e prevalso,
ma mai domo od esausto,
per sottendere il filo rosso
e poi discioglierlo a più non posso. 

Medicina
NOESCONIOSINNOCO
SODOMENNOPIRCECO
   POSSONOICOINCINO   

domenica 18 maggio 2014

La Ballata del Clown Triste

I respiri si rallentano
quando i trapezi sostengono il corpo.
Mi muovono al ritmo
della musica terrena, sempre pronta a scandire
ogni ingresso ed uscita
che si protraggono, alternandosi, in quest'universo,
fatto di piume e gravosi pensieri
sempre fatiscenti e in ogni forma maestosi,
cangianti ad ogni respiro
nel loro imprimersi di sangue o dei più limpidi desideri,
in una guerra dall'esito sempre più incerto,
ma dal proposito sempre più scoperto.
Conto i numeri nel cielo,
da qui la vista è migliore
per vedersi, per godersi,
ogni istante che striscia via
tra il rosso e il bianco,
nei colori
di questo cielo itinerante
ma pur sempre chiuso in se stesso.
Si distendono, contorsionisti, estensori,
spandendosi e ritraendosi,
scandendo le proprie membra
al ritmo, nelle curve di un angelo dorato.
L'angelo stanco
ricurva su se stesso speranze e giochi d'infanzia,
dove il capo, disfatto, grida più forte
di melodrammatiche contese, tra animali
feroci, inferociti tutt'ora
dalle pretese ardite e atroci che han dovuto subire
da peccaminosi padroni,
ladri, deprecati,
colpevoli del loro più sublime ingegno,
la libertà, la coerenza,
il furto di un intero senso per cui esistere.
La donna cannone
accende la miccia,
rivolge il fio su se stessa.
Lascia esplodere il colpo
per ciò che nel profondo cova premurosa, più in dentro,
tutto il dolore e il sopruso offerto
da un'esistenza basata sul lasciarsi esplodere ogni giorno,
lasciarsi sfinire ogni giorno,
lasciandosi consumare ogni giorno.
E poi si lanciano coltelli,
già visti, diretti lungo il petto, che dispone un abbraccio
per chi s'appresta a coglierne in pieno tutta l'essenza,
in un gesto che pur gradendo, dilania il cuore.
E le mani stese, mai giunte,
attente adesso a chi gioca coi fuochi,
chi si diletta nel bruciarsi l'animo,
pur di provarne emozione nel sentir qualcosa.
Tra un siparietto e l'altro,
ecco il mio turno.
Alzo gli occhi
e mi vedo prostrarmi ai giochi
del già commosso pubblico in sala,
ansioso adesso
di concedersi il meritato riso,
colui che finalmente, disperso nell'animo,
può conceder loro grazia
dagli strazi che il solo esistere
ha loro inferto a ogni colpo,
tra stanche vite, vuote,
avvolte in un corpo costretto a ripetersi,
gli stessi gesti d'ogni giorno.
Avvio le mie danze,
sono il capro espiatorio
per il piacere di chi si diletta d'un uomo
ridotto al baratro dal suo stesso respiro,
inchinato adesso,
per sbeffeggiarsi nell'altrui dimora,
davanti agli occhi di chi, innocente,
ride di gusto del buffo pastore,
incolpevole adesso
per la goffaggine ammessa in sala,
diretto verso tutti, per tutti coloro
che attenti
comprendono il viso scolorire del cero sopra il rosso naso portante.
Fine della giostra.
Il mio giro si è concesso anche oggi,
come ogni dì, d'emozionarmi,
di lasciarmi ogni volta
la gioia del poter farne carne tremula di me,
e di guardare del mondo
con occhi
dietro maschere dissimulate dalle più beffarde astuzie,
raggelanti, occludenti del resto
ogni respiro che dal più profondo dell'animo
possa chieder sorte.
Mi fermo adesso.
Trattengo tutti i fiumi dalla mia fonte.
Spengo il capo.
E' questo l'attimo
in cui do spazio alle mie giornate,
prendo il respiro,
catturo il tempo,
abbandonato qui,
disteso qui,
dove ogni spalto
si raggiunge dallo stesso posto.
Guardo il cielo
e mi accorgo che tu ci sei
e mi accompagni musica danzante
ad indicarmi la via lungo i giorni miei,
per lasciarmi laddove mi sento più d'ogni tempo vivo
e dove adesso
vorrei lasciarti tanto
il mio ultimo respiro.





giovedì 15 maggio 2014

Il Ballo del Dandy Mancato

Il mondo è sbagliato.
Tutto il creato è sbagliato.
E' psicotico. E' utopico. E' antitetico.
Come si può pretendere di giungere al miglioramento,
se proprio ciò che governa l'azione, il moto, la realizzazione,
non è altro che il peggioramento?
L'egoismo, l'appagamento, la prevaricazione, la supremazia, la selezione naturale.
Questo è il carburante che dà il moto allo svolgimento.
Si tratta di una legge incolore si è detto. Certamente.
Ma se solo si evitasse di gingillarsi di colori idilliaci e apollinei,
volti alla tintura di un universo iperuranico, allo Streben!
In cui tutto è assai più ipocrita ed effimero di ciò che si appare.
Allora sì! Che si compirebbe a buon rendere, ciò che si è detto.
Allora sì! Che il creato giungerebbe a condotta perfetta!
Ciò è solo noia per le mie orecchie.
E' strazio per la mia eterna passione di morte.
Non vi è intelligenza, per tal creatura che fa vezzo del definirsi tale!
L'onestà, l'integrità, la fierezza, l'emozione!
Il poter dire: "Io sono il Male! - Io provo bramosia eterna per tutto ciò che è Male!!"
Ah come dipingeremmo le nostre carte!
Ah quali colori impercettibili saremmo tutt'ora in grado di scorgere dal mare!
Se solo ci concedessimo...
No! Invece no! È più decoroso insistere nel trastullarci di bramosie peccaminose,
bramosie negate, negabili, inaccessibili, inconsumabili,
alla stregua di quei pochi paggetti circensi che guidano le nostre vite,
mentre ci si protrae, totalmente ciechi, ottusi e addormentati, nel lasciarsi guidare
verso la nostra Vera morte!
Il consumarci eterno, così da non dover mai nascere, non dover morire.
Consumo, per poi predisporci alla vendita, alle migliori offerte.
No, talvolta volando basso sulle peggiori, le più infami e disperate.
Accusatevi della vostra stessa ricetta! Fatelo, ancora una volta,
ricercate dove sorge la sede d'ogni vostro più intenso male!
Quanta noia, quanto splendore mancato.

Ecco allora,
io ho qui trovato il mio incastro,
ecco cosa annovera ogni mio svolgimento:
sto seduto qui.
Guardo, mangio, dormo. Mi consumo del patimento.
No, non me ne infischio, né mi svuoto dentro.
Soltanto, mi nutro delle vostre incomprensioni,
delle più remote lacune che lasciate estendersi, come uccelli addomesticati.
Dunque sì, non lavoro.
Non mi muovo. Né do altresì soddisfazione alle vostre continue richieste,
del compiere per voi azioni che siano avvolgenti, coinvolgenti, o addirittura ammaestrate.
Che possano cogliere e ravvivare sempre la vostra attenzione, così vuota di voi stessi,
così pregna di sostanze narcotizzanti, e perduta per sempre nell'oblio delle vostre sorti,
che si riciclano,
come esperienze vissute ruotandosi intorno, senza mai inquadrare un cerchio.
Senza mai puntare verso il centro, giusto per seguirne qualche raggio.
Concepire dov'è che fa poi capolinea..
Eppure non di voi qui si parla!
Questo è il mio posto.
La danza, l'esultanza, l'ebbrezza e l'ubriachezza!
Io non farò nulla! Mai nulla! Nulla!
Nulla che per voi, equivarrà al far qualcosa.
Sdraiato qui,
inzuppato fradicio delle più ebbre fronde, che mi pervadano allora, da cima a fondo.
Dormo, non mi sveglio, Dormo!
Mi siedo qui e quando voglio guardo dall'altra parte.
Pervaso dal mio mondo zuppo di incantevoli voglie e sublimi bramosie,
intense, marcate, così sfuggevoli, ma tuttavia conquistate..
Così infischianti e durature, anche ingannevoli ma a volte pure.
Questo è un inno alla vita, di certo lo è più del vostro.
Non contiene alcun inganno, soltanto il peso dell'essersi preso posto.





mercoledì 14 maggio 2014

Delirio #2 - Aiòn

Fuochi fatui,
s'accendono.
Nascono dal bianco fiore,
si illuminano lungo il cammino
disperdono gas inodore.
Quel blu fluorescente
è la fiamma,
che da sempre inneggia il ventre.
Consumano il grigio torpore.
Distanziano percorsi
illuminano con esili passi
saziano l'opaco candore,
guidano il passaggio
che in sé distende il filo.
Disseminano fiamme ardenti
qua e in là, nelle soste lontane.
La tua, è l'ultima di tutt'una stirpe!
Ma in te, in te,
in me!
Ho acceso la fiamma bruna.
Da Te, per Te, con Te!
Ho acceso la fiamma Solenne.
Rebis!
Caput Mortuum.

Medicina
ANEMIEIAVALAR
TUMEFEIMAAF
SETTIOLTTUOR


mercoledì 7 maggio 2014

Delirio #1 - Bene

In attesa di staccarsi,
fino allora è la mia forza.
Muoversi in lungo e in largo il mio sconforto,
mordersi fino all'osso, per non cedere la coda.
Io credo, per non avere alcun senso.
Io spero, per non avere alcun rimorso.
Il credo è dei dannati,
la speranza è la loro fine.
Una fine senza inizio,
di certo non v'è incertezza,
vige soltanto la certezza:
l'anatema di non alzarsi mai.
Siede dunque la sentenza:
il tempo è una fievole illusione,
accetto tutto il corpo,
domani lo butto via;
amo il nesso con l'oltremondo,
di lui covo bramosia;
e mentre è intenso a morte il corpo,
guardo il cielo, senza reclamo per la luce,
di lui, tra guerra e pace, illumino il mio sorriso.
Mi riposo adesso.
Mi nutro.
Mangio la vita.


Medicina:
MORALIBELADLETRALA
ESTQUODALEMATERI
VITEGALAANNOGILI
               
                                                                                                                                

venerdì 2 maggio 2014

Il Cammino, Tutte le Volte

Oh, è questa la calda sensazione che mi piace provare,
all'imbrunire,
quando le nuvole s'addensano,
creando una morbida e soffice nebbiolina,
flebile e calda,
abbastanza da sentire le proprie membra accalorarsi,
come un abbraccio, rassicurante,
in memoria di un'atavica sensazione primordiale,
che rimarca la sicurezza intima dell'involucro materno.
E il sole le sovrasta,
e porta il lume laddove le remote e scure depressioni
affossano il terreno,
e lo rendono cupo, ricurvo
e preso dall'intento d'affogarsi tra le proprie colpe,
arrendevoli, invece, adesso che la luce le ha scovate nel profondo,
sorprese, oramai dunque,
ad ammettere la perversa ingordigia
rivenuta nel trastullarsi del proprio mondo.
L'aria si fa limpida,
inalo un respiro che ristora le anime danzanti sui cieli rasserenati
dall'intiepidirsi dei cocenti afflussi, portati dal sole,
di cui esse li sorvolano,
e si rincorrono in cerca delle primizie che le correnti di primavera
s'apprestano ad offrirgli in grembo.
E poi i canti.. Che da tutt'altri mondi inneggiano,
d'ogni luogo,
alla più serena convivenza,
tra le melodie dissonanti deturpate da quei mezzi
che impuri
corteggiano questo intenso paradiso terrestre,
in cui ogni festa,
sia essa pura o ricolma di peccato,
trova luogo in un'armoniosa sorte,
che coinvolge già tutti gli orchestranti,
intenti, ognun per proprio conto,
a raggiungere il luogo prestabilito,
consci di dover adempiere al proprio compito,
ognuno col proprio mestiere,
affinché ogni giorno possa sempre erigersi
come quello più dorato.
Io m'immergo in un tepore
che fa brezza dall'interno,
e che calma il corso delle acque delle sorgenti,
che fino ad allora, si spingevano con insolenza,
miscelando i proprio flussi ardenti, in una più profonda disillusione,
dipingendo l'intero corso
d'un nero rattrappito, coagulato,
rappreso in grumi di turpitudine decadente.
Il calore spegne il soffio dei venti
che da un capo all'altro
respingevano, come per gioco,
i miei brividi di lamento.
Giungo allora al centro del mio viaggio.
Poi mi siedo, sul punto esatto in cui ho sempre inclinato il corpo,
e mi perdo tra le danze ammaestrate per l'occasione
dai primissimi messaggeri alati delle correnti di primavera,
coloro che mai si poggiano per intero sulla propria terra
sfrecciano in apoteosi per la più importante celebrazione
che rasserena tutto il corpo,
e lo dirige verso un tempo che al qualsivoglia incontro aveva chiuso i propri battenti.
Le emozioni sono lì congelate, in un luogo fermato nel tempo ed occluso dal tempo.
E d'esso soltanto preferiscon proferir parola, sovente, quando il tempo si fa buono.
Da lì, incalzano discorsi
da cui perdersi per strade assai profonde
è cosa molto facile.
Ed io solitario parto
ed in armoniosa compagnia finisco poi per ritrovarmi,
in un cammino gioioso
di cui m'affretto tutte le volte a raccontarti,
quello di una più serena madre
pronta a render grazia ad ogni tua parola mai davvero portentosa.
È questo il fortunato destino
a cui lego con fervore ogni mia parte,
e dal quale, con equilibrio,
mi presto a conservarne ogni più piccola delicatezza,
pronto a concederne,
a chi con un gesto ritrovi il proprio posto,
col cuore, ogni singolo istante,
anche se di un posto lasciato in passato
è pur sempre quello di cui si parla,
in un luogo, che definir magia,
è pur soltanto fiato sprecato.



venerdì 18 aprile 2014

Direct To Your Soul

Sai,
io amo le cose che resistono nel tempo.
E penso che debbano farlo,
perché così facendo
diventano la dimostrazione vivente della negazione della vita.

giovedì 17 aprile 2014

Lettera D'Amore

Io non ti amo. Né t'amerò mai veramente.
Questo l'ho compreso.
Vivremo sempre in questo tragico rapporto. C'è poco da dire.
Tu mi offri dal canto tuo troppe poche e fievoli tentazioni, tali che
possano realmente reggere lo spirito compulsivo di un dominio a tutto tondo,
come quello che si propone dall'altro capo, attuato da un bollore imperante
che ottunde dinnanzi a sé ogni vista, priva di decoro, che non sia degna del più sadico confronto.
Io, dal canto mio, mi offro gelido ma sincero in tutto ciò che ho da offriti.
Eccoti.
Eccomi qui, pronto a concederti tutte le mie verità.
Così come tutte le mie obiezioni di coscienza, invero,
sempre bramanti di conoscere oltre ciò che c'è da conoscere,
sempre pronte a concepire tutto ciò che sia ancora da concepire.
Tra i due, quel povero pastorello costretto a muovere di propria inventiva tutto il gregge,
ritrova nel perdersi e ricomporsi il suo vero io,
nel farlo tante di quelle volte, da ledersi e risanarsi
come fosse una condanna,
da rialzarsi, con gran lentezza,
al punto da perdere ogni fiamma pia che gli consenta di fare luce sul lato più profondo della propria scelta.
Anzi, di ciò che gli rimane, egli si trova presto a circoscriversi in poveri lumi sempre più ristretti,
e intensi, oltretutto,
di quel calore che una luce così misera e patita possa manifestare attorno al perimetro della propria immagine.
Io giungo a te con una missiva carica d'odio e disdegno, cui il tempo ne ha sbiadito l'inchiostro,
trasmutando ogni deplorevole sensazione in tinte d'odio e remissione sempre più torbide,
fino a concedersi quest'oggi l'investitura di colei che porta il peso della solitudine,
della delusione,
e della comprensione adesso congiunta.
Questa, ha di lei presto mutato ogni rossore in un'arida consapevolezza,
che di tutto ciò che io avrei da offriti, servirebbe soltanto a soddisfare l'apparenza,
o magari ancora l'appariscenza, di ogni tua richiesta, o del qualsivoglia insulto
che da una come te ci si possa attendere.
E ciò che hai avuto da offrirmi in questo lungo lasso di tempo, ha concupito ben poco,
e mai tanto da prendersi sul serio, ogni mia voglia vera e dal più profondo concepita,
peccando, quantomeno in costanza, nel portare più pestilenza che perseveranza,
laddove i miei banchetti costarono fatiche a coloro che presenziarono in ogni scena messa in atto.
Vedi dunque, con le futili armi che porti in grembo, costringi l'anima mia
nel conseguire quell'inevitabile assunzione di certezza,
una verità,
una, vera,
volta a spegnere definitivamente ogni stimolo sovrano nei tuoi confronti.
Specchio dei miei occhi, mi vedo nella meschina attesa
di uno scempio che, mai colpevole del mio destino, e ancora innocente agli occhi della giustizia,
possa offrirmi una sostanziosa sorte, dalla più dolce ricompensa, della più riprovevole sventura,
che possa espiarmi da tutte le colpe, come auspica ben bene la più vile tra le creature,
e riportarmi lungo la pace, serena, duratura,
laddove lo svolgersi severo dell'innocente mietitura,
lasci distendere i miei occhi,
conducendoli nel pieno riposo che la notte, nel suo grembo bardato d'oro buio,
possa concedermi salvandomi dal più greve peccato mortale,
lasciandomi, amaro, e mai del tutto indifferente, alla colpevole insofferenza
che porti la firma velata della mia più profonda e infima natura.


sabato 5 aprile 2014

Il Walzer della Notte

Cerchi concentrici.
Vuoti. Senza vita.
Mi giro e mi rigiro, in essi.
Muovo le dita.
Vacuità. Torpore.
L'annichilimento, non è dolore.
E' morte, è dissapore.
Spegnendosi si contano le ore.

Confusione.
Il cerchio a lungo gira.
Va via la testa, va via la vita.
Mi alzo, mi muovo.
Mi concentro nel rumore.
Silenzio.
Lo sguardo messo al fuoco.
Nel fuoco, non vi è calore.

Ogni anima è perduta.
L'occhio verso l'alto, e la luce vi è assopita.
Il petto mi si muove. Vive di sentimenti.
L'orchestra dirige il gioco.
I respiri sono indigesti.
Gli sguardi indifferenti.
M'attengo al mio copione.
Mi sveglio, per riaddormentarmi ancor più nel sopore.


domenica 30 marzo 2014

L'Ombra di Saturno

Ogni tanto penso che dovrei assecondarti, seguire il tuo pulpito, che così spesso con gran veemenza mi reciti come fosse quello più adatto alla mia morale.
Mi fermo e sento che sarebbe la cosa più giusta da fare riguardo tutto questo, dare spazio alla tua voce che troppo spesso ha dovuto esibirsi col lamento.
E più vado avanti, più riesci ad averne ragione, di me, di tutto ciò che mi corrisponde, riesci a convincermi da buon mercante, come si fa coi più sprovveduti passanti, a consumare la tua merce.
Forse un giorno la tua voce riempirà tutto questo.
Forse un giorno riuscirai a vendermi finalmente tutto ciò che vorrai, tutto ciò che possiedi.
E fino ad allora sarà un continuo battersi e ribattersi di questioni che parevano già risolte, ma che invece sempre più in fondo hanno posto le proprie radici.
E queste col tempo hanno già consumato gran parte dello spazio che riempiva l'intero sottosuolo, trovandosi così ad inerpicarsi, a contendersi e spingersi più in su, fino a ledermi e comprimere anche ciò che alla luce del sole aveva sempre giaciuto per suo insindacabile diritto.
Ecco allora che da buon mercante hai venduto a poco a poco il tuo prodotto, approfittando, affinché esso lasciasse germogliare in me le più cruente supposizioni, su ciò che fosse giusto e su ciò che fosse vero, su ciò che fin dal tempo era già stato scritto, su ciò che di così ancestrale, da allora, marcisse in me.
Ed eccomi qui dunque, adesso, alla stregua dei tuoi lamenti, contuso, e rivolto ai tuoi occhi, in balia della mercé dei tuoi giusti sentimenti, sempre pronti a concedersi parola quando il momento è più opportuno, o a lanciare il proprio fendente quando l'occasione si fa ghiotta.
E me li vendi cari questi tuoi lamenti.
Poiché col tempo mi rendo conto che essi acquistano sempre più valore, di come, con l'andare in alto e in basso delle stagioni, tu prenda possesso delle più squallide e luride speculazioni, per farne di esse un vanto, e per promuoverle, tra le più raggrumate delusioni, a concetti di valore e oggetti di un certo conto.
Il tempo mi da ragione di come nel breve lungo corso poi cambino le cose, come di tutta un'altra vita, si renda conto oggigiorno a dispetto del domani.
Eppure un tempo, di esso, si poneva un unico senso nei contorni lucenti del nostro passato, e tuttavia vi si cuoceva col giusto fuoco tutto il tepore del nostro concederci alla vita, quest'oggi.
Adesso mi fermo, qui, alla stregua delle nostre lunghe e interminabili conversazioni, a concedermi all'idea che forse quel gesto darebbe davvero conto del mio valore.
E' quel gesto di cui sempre tu mi parli, che ben dichiara qual è il senso ultimo della mia stessa vita, il quale, forse, ne è stato fino in fondo l'unico senso primario.
Tu mi parli, difatti, stregandomi di come un tempo si assaporasse lo stesso identico dolore celato sotto deplorevoli spoglie, di come muovendomi e sfuggendolo mi ritrovassi sempre ad annaspare in un mare consumato dallo stesso torpore che aveva già stroncato i miei stucchevoli sogni, quando mi muovevo ancora tra le fronde della più tenera età celeste.
Mi persuadi ancora, che il destino sarebbe stato già scritto, destino nel quale forse, avendo già perduto il più incantevole dei propositi, sarebbe andato perduto anche lo scorrere dei miei più antichi aurei risvolti.
Ecco dunque che, oltre il velo, infine, si scorge il sentiero a me riservato nel senso più atavico che sia mai stato imposto,
e questa notte mi trovi in ginocchio a dartene ogni ragione, e così come questa, d'altre notti m'hai venduto senza mai concedermi di assaporare un minimo raggio di quel sole che, com'era scritto, mi sarebbe stato dovuto fin dal principio.

1Ebbene,
2Forse un giorno ci prenderemo mio lieto mercante, e nel lungo abbraccio ci stringeremo, immergendoci di quel liquido nero, putrido e asfissiante.
3Forse quel giorno ci fonderemo nel più acceso amore così devastante, che in esso, nel nostro intenso abbraccio, affogheremo dolcemente con terrore ogni singolo istante.
4Forse soltanto del tuo sincero approdo avrai goduto, avido e ingordo, con l'occhio bramante, e con esso, grifagno predatore, la mia anima avrai preso, nel supplizio del suo ultimo respiro restante.

5Forse allora, quel mattino tornerai a rendere causa al mio vero fato, le cui trame in fondo, da lui sempre con cura m'hai decantato:
6"Sotto l'Ombra di Saturno tu sei nato e dal ventre, con spasimo, d'essa inerme sarai in eterno consumato".

                                        7
                                       



domenica 23 marzo 2014

L'Attimo Fuggente

Sarà passato tutto il tempo che vuoi, ma ogni volta che mi concedi quegli scontri fugaci, in questo incontro in cui c'è sempre da farsi male, il mio spirito è come se prendesse fiato da un soffocare che ha già ucciso l'anima.
E mi delizio e mi concedo il lusso di ricondurmi a sognare, a riconcedermi e ricongiungermi ad un qualcosa che già da molto tempo fu lasciato incolto.
I campi arati furono bruciati dalle folli gesta di un signore iracondo, in preda alla propria escandescenza e consumato dalle fiamme interiori dell'incandescenza, e da allora nulla vi fu più coltivato, e nulla dunque ne fu mai colto, lasciandoci tutti impietriti in preda ad una lunga e cruenta carestia, che nel tempo ha lacerato ogni singola parte del nostro intero corpo.
Così presto e di gran furia si spinsero le vecchie signore dei campi, a spazzar via i resti di tutte le loro malefatte, dove, tra uno sguardo indiscreto e l'altro, quando non v'era più nessuno a scrutare, la vigliaccheria prese posto, nascondendo ogni superstite filo dorato sotto copiosi cumuli di cenere e dei resti carbonizzati, ancora fumanti e abbrustoliti dalle intemperie accorpate nel tempo, anziché conservarne minuziosamente ogni singolo corpo, nell'attesa, speranzosa, di tempi più propizi.
La vendemmia prese dunque il loro posto per gran parte delle stagioni, di essa assai fiorenti furono i frutti, anche se, ben presto, anche le scorte di quel succo dai contorni violacei esaurirono il loro colpo, lasciandoci indigesti e ben presto disidratati, di quella carica e di quella vigoria che rendeva giovamento al più malizioso e modesto dei mondi.
Tu mi hai concesso le uniche eresie per una vita fatta di stenti, e di affamati bei propositi, ben presto sedati nel tempo dall'inadempienza alle proprie colpe, nonché ai propri doveri, di per certo.
Eppure ogni incontro è stato uno scontrarsi valido, sincero, onesto nei propri intenti.
Ma soprattutto intenso. Così intenso e forte come pochissime altre cose al mondo, tali che il mio sguardo così in sincerità e purezza, si sia mai concesso di gran gusto.
E nonostante le cose abbiano preso una piega in cui nessuno di noi sia mai uscito vincente, ecco che ogni volta che ci si incontrasse su questa via, da un momento fugace, ad una visione colta e rubata in controtempo, ho sempre potuto scorgere il tuo occhio vivo sulle mie gesta, ormai decadute e decadenti, come succede a tutti nella vecchiaia, sempre presente, e vigile, e controllore d'ogni movenza che potesse lederti o concerti un'inaspettata grazia, che forse, sempre, da dentro aneli.
Esse ti concedono da sempre gratitudine invece, che tu forse mai hai saputo cogliere, né certamente ricambiare, ma che hai sempre ambiguamente inteso come minaccia, o talvolta magari offesa, vigliaccheria, o più semplicemente come indegne della tua maestosa presenza e, ahimé, a tuo modo di intendere, spettanza.
Ecco allora che mi confesso nel dirti cosa il tuo piccolo dono comporti per me, e cosa e come andrebbe forse ricambiato, magari un giorno, in chissà quale distante futuro.
La mia vita mi concede già pochi pasti da ciò che sembra essermi degno di ristoro.
I campi, come detto, sono sterili di frutto, e così come questi, da essi si svuota ogni letto di fiume, che prima tinge di grigio la propria natura, la quale, non più cristallina, tramuta il proprio corso in un letto di veleni e morte, fino a consumarsi ad un filo tenue che può giungere a secca quando il sole d'estate si fa più mordente.
E' un ritratto di una natura morente quella che mi si prospetta.
E lo sguardo alle mie spalle mi conduce attraverso vie nebbiose, in cui il tempo si trasmuta di un risvolto temporalesco e cui le memorie delle rugiade e delle api in cerca di fiore, si tingono di un grigio in cui ogni cosa è inscindibile dall'altra.
Mi trovo dunque impantanato in un pantano da cui non vi è scampo, se non l'idea di mettersi le vanghe in spalla e cominciare a scavare giusto laddove s'era lasciato.
E in questo muovermi tra fangose poltiglie e percorsi franosi mi si concede un piccolo canto in cui sento di non aver del tutto perduto speranza, in cui poter seguire la via, in cui ritrovare i vecchi tesori perduti, e forse rubati, in un'esistenza in cui sognare non era delitto, ed addirittura realizzare era il più immediato diritto:
il canto di cui mi degni, nel silenzio delle nostre danze tra giardini delle più inconfessate virtù, è il canto della più sublime dichiarazione d'amore che un'esistenza intera possa esprimere nel tentativo di essere colto.



venerdì 21 febbraio 2014

Coro degli Angeli: Perdizione & Mercificazione

"E dunque dimmi mio esimio, perché t'impregni, selettivo, del soffermarti su anime già perdute e arduamente riconducibili alla retta via ogni qualvolta ti si presenti l'occasione di stringer patto col loro stesso diavolo?"

"Poiché i viandanti della via umida sono nient'altro che anime perdute in cerca di un cammino che dia un senso alle loro sorti."

"E del sentiero morale? Cosa dici di coloro che imboccano la via secca?"

"Le anime servili alla morale, esse non mi affascinano poiché scelgono sempre la strada che più di comodo sia esse propizia, di quanto si addica alle apparenze, sia chiaro, né si affannano di dare ad essa un senso proprio, un compenso, magari camuffato, magari derubato ad un qualsiasi mercificante che si sia posto a loro d'innanzi.
Gioisci ordunque per colui che si è perduto, perché anziché assopirsi in un ipnotico letto di fiume che fa di lui corrente, egli s'appresta ad incontrar se stesso, o per lo più a rifuggirlo talvolta, mettendosi sul conto che non é alla vista ch'egli debba scansarsi, ma al sentirne la voce vivace e ardente sbraitare dentro al cuore: se non é vita, se non é vivere la più totale interezza di una vita stessa questo, vorrei ben comprendere cosa quei biechi mercificatori spacciano per vita a tal posto."

"Io di questo non saprei. Non é mio affare e di ciò non mi attengo in verità.
Per me ogni anima é anima unica ed identica alla successiva in merito ad ebbrezza e perdizione nell'oceano celeste."

"Mi allieta l'idea che pure un famiglio del tuo rango possa partorire di tanto in tanto visioni che della più bieca natura fanno il loro manto, ma cui cristallina certezza e verità fanno di esse un vanto."

venerdì 14 febbraio 2014

Coro degli Angeli: Elegia

"e se il fiore appassice perchè ne conservi ancora le spoglie?
perchè riesumarne la carne al perpetuarsi errante delle stagioni?"

"perchè esso vive impresso in ognuno di noi,
e di tutta la gelida e putrida nefandezza, possa sempre coglierne i bei frutti."





venerdì 31 gennaio 2014

La Strategia del Ragno

Sai essere la più affascinante tra le creature.
Piccola, molle, esile,
dalla sagacità impressionante;
la tua andatura porta dentro
l'orgoglio di un re decadente,
accogli le tue prede
in una connessione concupiscente,
le avvolgi tra le tue tele
fatte di un'indole penetrante:
sei disarmante.
Di quel fascino
fai arma asfissiante,
che augura la pena più rodente
ad ogni sensibile creatura,
la quale, di malia e bramosia pura,
vi si tortura insistentemente.

Di quella grazia sei sferzante,
per chi dona l'occhio
alla tua sensibile natura,
quella grazia disorientante
per chi è accolto, dal destino, alla tua ineffabile altura.
Eppure appena un passo
e la tua rete collide su se stessa.
Un destino triste, infausto,
che lega al filo tenue
persino la tua testa.
Sottile l'ironia
sancita dalla vita:
la propria vigoria
in cambio delle tue preziose gesta.
Permane confusione,
d'un'intensa disillusione,
e le rovine
di quel regno di tessiture effervescenti,
ma dalle fenditure incredibilmente resistenti,
che d'ora in poi soltanto rammendano
i vecchi tempi.

E non v'è che leggerezza
nel perdersi tra le tue corde,
fatte di una bellezza
che rende l'animo concorde,
reso fluido dall'accortezza
di metter luce della propria sorte
e del concedersi l'efferatezza
d'abbandonarsi ad una dolce morte.
E il tuo abbraccio è una discesa agli inferi,
dove le spire si contorcono
tra i fuochi oscuri dei piaceri più infimi,
dove la fiamma bruna brucia un legno ardente
e dove l'anima candida di un forte desiderio s'accende.

Ma colui che è cieco alla vista non s'arrende,
non s'incanta alle tue omelie,
non s'avvede della tua dolcezza,
non si impegna nelle tue preziose vie,
né si cura della sua accortezza,
anzi la occlude nella sua interezza.
Egli si fa corazza,
talvolta vi si perde, talvolta poi vi si spiazza.
Talvolta egli la teme,
e rifugge ogni conquista,
che costi a lui l'incontro
con la sua stessa vista:
così dunque egli si crede
d'aver fatto gran provvista.
Così egli si avvince
d'aver compiuto le immani gesta.
Egli, ahimè stolto, ha perduto la più dolce squisitezza:
ha dato il triste annuncio
del mai concedersi alla propria testa.
Da sé s'è fatto cieco.
Ha occluso con le proprie mani
i pochi lumi che la vita gli ha concesso.
Egli non vede tal splendore
attorno al proprio capo circonflesso,
un erigersi a corona
di fasci e tessiture,
che riavvolgono le velature
di infinite coloriture
altrimenti disperse nei meandri
delle più labirintiche fioriture.
Una culla, in un fascio di filamenti e tessuti intensi,
fatta di un calore primordiale,
di una rete così tesa e resistente
da esser curva pure per cogliervi la mente.
Del cieco ti ravvedi, incantevole creatura,
per ciò che lascia il segno
della sua misera disinvoltura,
un povero gesto atavico,
d'una violenza ed una premura
del calore più barbarico,
della più breve caratura.
Le tue reti non hanno cure
per il cieco e le sue dittature.
Le tue reti bensì si annodano in intricate connessure
per chi si avvede,
per chi si attiene,
dell'accortezza delle tue fatture,
per chi si ferma,
per chi si intrattiene,
tra le tue tele in cerca d'avventure.

E chi dolce dunque resta
ad appigliarsi tra le trame della tua testa,
egli, si avvede presto in festa
d'aver giocato le proprie gesta
e d'essersi impigliato
in un'intricata cesta,
cui ogni filo che la rammenda minuziosamente attesta
i più sfarzosi intrecci
delle veritiere e folte scanalature,
dei lati più nascosti e delle più recondite paure,
dei più temuti incesti,
dell'invisibile e di tutti i suoi doveri più molesti.
L'immersione in un cumulo di paure
che non fosse per le tese e resistenti tele,
getterebbero l'animo solitario in un oblio di catene e incessabili torture.

Ecco dunque la bellezza
della verità cupa ed inconfessa,
dell'inconscio e della sua ombrosa natura,
e di un'anima rinvigorita
in una più lucente fioritura.
Ecco dunque la brillantezza
che porta in Sé tutta la consapevolezza
della minuziosa opera pura,
attuata a lungo e con gran cura
dall'abile stratega,
nella sua Arte Regia della più pregevole fattura,
vissuta sopra ogni passo,
nella gran tela dalla collettiva struttura
di un universo di cui ogni intarsio
è un tassello della più primitiva natura
dell'anima e della sua corrispettiva controfigura
e a spese di tutto il collasso
della propria interna architettura,
di cui lo spirito regge il passo nella più nobile disinvoltura.



domenica 19 gennaio 2014

Il Manifesto contro la Scienza - Cap. 2: La Scienza come Morale

Così si riduce lesto lo scempio ad un insensato e dozzinale professo di Morale Scientifica, latente, uniforme e potente, così da poter giungere all'onnipotente, ed onnipresente, protezione da ogni errore fatto, commesso, concesso, e d'ogni qualsivoglia scelta sbagliata, errata od addirittura non prevista!
Colui e colei non conformi a tal vezzo ed, ahimè, olezzo, non son degni di goder di siffatto privilegio di cultura, né di rifletter la propria luce in verità alcuna, poiché indegni, ed in ciò disonesti, di una coperta di così tanta premura e calura, che l'essersi fatta un po' corta a lasciar scoperti entrambi i piedi, diviene un bel mezzo di giustificazione ed impotenza umana, dalle più note e puerili forme, del lasciar, in fondo, del tutto al buon caso, e dunque al mistero, la vera incombenza di dar credito alla presunzione divina e divinatoria, d'un mezzo e d'uno spargimento di proposte veritiere, che di vera e sincera attribuzione non fan alcuna concreta pretesa.
Così l'incomodo vissuto, scosceso e sconnesso, di ogni esperienza individuale, trova forma, ed abbozzati contenuti, nel collettivo, laddove si riveste di un comodo e sordido appiglio, dove si ramificano i contenuti e dove si riversano formando una tela, che incrocia i quadranti e le tortuose connessure, da render chiara, calda e sicura, ogni isteria nascente, tanto da spegnerla sul nascere, anche quando codesta possa invece fluire dal proprio bozzo e prender luce e consapevolezza, tramutandosi in una morfologia splendente e delle proprie profondità più acute illuminante.
Il tutto si smuove nascosto alla diurna lucentezza, nell'oscurità e nell'estendersi dell'ombra di un mito e d'un idolo da crocifiggere quale esempio salvifico del sacrificio e dell'impegno del povero raziocinio, che tutto impettito s'affanna ogni dì alla ricerca delle sue cose, del metterle insieme e del tenere unita una carrozza i cui cavalli si muovono ognuno in differenti direzioni, che tirano e assottigliano le redini fino a ridurle a miseri filamenti così che neanche un ago riesca a vederne le punte al buon proposito di lasciarle entrare nella propria cruna. S'affanna dunque il raziocinante alla ricerca di mezzi, contese e pretese che gli consentano poi di erigersi e mostrarsi fiero e dominante della sua parabola di scoperta e di interezza, sì potente lui nel dettare le leggi più generiche e approssimate, che dietro il dogma della superba appariscenza si trasformano nelle più tenaci tavole che qualsiasi Mosè abbia mai veduto, e nei comandamenti più imposti e moralmente dovuti cui egli stesso abbia mai prestato lettura.
Il tutto rassomiglia, tinto della più subdola ricchezza, ad uno schema schematico e dogmatico già visto e già vissuto, già colto e già dovuto, e subito, da tutta un'intera generazione, o ancora, di una schiera di secoli di colonizzazioni e guerre profetiche, che di vero, serio e concreto, nulla han dato risvolto e soltanto di ignoranza e disperazione, nonché chiusura e disillusione, han condotto lo spirito delle migliaia di anime perdute, sia prima, che durante, che, ancor più tristemente, dopo, per tutte le generazioni a venire.
Ci si rinchiude allor dunque in meccanismi ancestrali che mutano la propria forma di volta in volta, ma che mai degenerano la propria sostanza, nello scorrere dei secoli, fino ai giorni più primi, in cui l'atavica consapevolezza di una cura, e sterminata protezione, portano giovamento al dolce e giovane uomo, colpevole di cullarsi troppo tempo in un susseguirsi di leggi che gli permettano mai di pensare troppo, in teoria, ma di pensare invece oltre ciò che gli sia dovuto in sostanza, e di perdersi ordunque nel mai vivere seriamente, ed ancor meno concretamente, ciò che la vita gli concede, ma anzi ancora più di nascondersi e perdersi in un nichilismo mascherato da comprensione e fruizione della vita stessa!
Tutto ha principio dovuto alle più infime premure ed alle più inconfessabili paure che l'uomo medio al di sotto del proprio naso ben nasconde, e ben si guarda dal voler affrontare, e che al di sotto del proprio petto spazza via, come si fa coi cumuli sotto al tappeto, così da perdersi in un mare di dimenticanze, in cui si perde l'atto per cui la Scienza stessa nasce, il motivo per cui essa di ontologia si tinge, ed il proposito per cui dell'amore per la vita essa si spinge, ritrovandosi poi un po' troppo in fondo, al punto in cui non ci sia più nulla da guardare, né tanto meno qualunque cosa da affermare, se non un vano accostamento di teorie ed evidenze così vaghe da disperdersi in un oceano di probabilità, che vengano elette a sicurezze, in un momento in cui esse restituiscano più nefandezze che inoppugnabili verità.
Giungi qui o' pretenziosa megera, come una legge, come una salvezza che di salvifico ha solo l'illusione, la concretezza, la protezione, che si può dare a qualsiasi legge, religione, dogma o qualsivoglia morale possa essa realmente portare. Così come la più infima morale sei il velo di maya, che ad ogni uomo è stato posto negli anni della più sensibile giovinezza, in quel tempo in cui d'ogni parola si costituisce l'essenza, di ciò che si è e di ciò che si diverrà, nel momento in cui ad un certo tempo in verità vi diremo che cosa vi è di giusto e cosa di non corretto nel nostro restare, e nel nostro credo, tale da spenderci in battaglie ed in insostenibili fatiche, costateci una vita di disillusioni perdute e sperdute, nella continua ricerca di una coda che, in fondo in fondo, siam consapevoli che non riusciremo mai a morderci.
Come una tra le più potenti droghe stupefacenti, alieni quindi il povero ingenuo in un incantevole tunnel fatto di sicurezze circoscritte e mai curanti di ciò che le circonda realmente, mai aperte nella loro membrana a lasciar giostrare la propria chimica, ma ancor più barricate da castelli, mura e colonne in avorio, pur di proteggere le proprie mancanze, all'interno di un mezzo, di un meccanismo, che è un teatrino dei più illusi, consumatosi adesso come verità inoppugnabile per tutte le povere anime che vi si concedano, ma ancor più vile (delitto ancor più grave!) per tutte coloro che vi si debbano concedere a forza, così che chi voglia eluderle è costretto alla fuga da un sistema ormai impregnato di tali congetture fino all'osso, fino a farne matrice primaria per tutte le più ingannevoli direzioni, ma anche per quelle credute sincere e preservanti, innovative e volte al benessere comune di tutti coloro che vogliano, e dunque debbano, usufruirne.
E' l'assassinio, ancor meglio, per tutti coloro che vi si schierano contro, che cerchino nelle proprie iniziative, o di più, nell'unione delle più meritevoli esperienze, informazioni, strategie, pianificazioni, e perché no, "sperimentazioni" delle leggi più avvedute, e nell'unione ancor dei pezzi combacianti, escludendone quelli non pertinenti, di trovare una più modesta ma sincera conclusione per ogni attimo e ogni briciolo d'esistenza che si possa porre loro d'innanzi, nel concedersi alla consapevolezza di un insieme di esperienze e di eventi, dettati da più vedute, soggettive, personali, altrui e quindi dunque anche d'oggettive fenditure e fatture, nonché cognizione, per riassumere la sapienza di talune delle parti di un intero puzzle che forse mai riuscirà a racchiudere i loro intenti, ma che per certo concederà loro la sapienza più sublime, se solo essi vorranno, del comprendervi di ciò che c'è da capire, quell'ineccepibile consapevolezza sfuggente del divenir uomo e dell'erigersi a superuomo in ultima sorte.

Adel Abdessemed - Décor


sabato 4 gennaio 2014

Il Barone Decadente

L'insano amor proprio del non voler guardare al di sotto del proprio naso.
L'invisibile sfrontatezza del non reputar nulla all'altezza di me.
È così che si compone realmente la tua malattia.
Di ciò si nutrono le costernanti pastorizie della tua immobilità.
Come un barone sfuggente, per te, e te soltanto, provi amore e vanità,
null'altro ti schiara la mente, e di poco frutto ti si infervorano passivamente le membra.
E falci e falci ancora povere anime che nulla tengono e che ancora, innocenti,
si muovono alla ricerca di se stesse, un po' goffamente, un po' circumnavigando isolati
che col tempo allungano ancor più la loro sofferenza, anziché convergere alla ricerca di una sublime verità.
Dell'odio e dell'invidia ti fai ira e scudo, nelle più avverse condutture
che di tangibile e di sicuro ben nulla han da mostrare.
Ma di tal genocidio ed imbottita mietitura tu ti ferisci, o' mio giovane rampante,
poiché t'imbevi tutto d'un sorso che ottenebra le menti, che le rende ancor più acide
ed un po' troppo petulanti.
Da qui ha inizio la tua tortura, poiché dell'insistente domanda e della rigida richiesta
fai sia un mantra che rinuncia alla retta vista, per ciò che sei, e per ciò che con dote porti in grembo.
Da qui scatta la rinuncia, l'oppressione, la dispersione, di quel che rendi amato,
di quel che dovresti amare e di quel che sarebbe ancora da innamorare.

Un signore d'altro tempo, un signore di un tempo forse mai esistente.
Ecco cosa raccontano i tuoi passi, scorgendosi l'un l'altro in una sinfonia ammaestrata,
riconducibili ad innate sincronie, anacronistiche ed inconcludenti,
che d'indegno candore trasudano ad ogni mossa.
Così ti conducono i tuoi passi, laddove non v'è spazio per esistenza alcuna,
in un tempo assai tiranno, col suo fervore frenetico e irascibile,
e per chi lo elude assai iracondo;
funesto adesso, e infausto, col distinto passante e con la sua leziosa leggiadria
ed il suo tepore atavico nello scorgere di bellezze e di canti,
che dovunque ancora si rifugiano impauriti e un po' annebbiati
nell'oscurità d'un luogo in cui nemmeno la loro fine essenza giustifica il debito posto,
spogliata del proprio grido dall'immane scempio di arretratezze.
Qui signore, ti fai servo, povero della tua aristocrazia,
di cui sto mondo non sa più che farsene, poiché piena di fermezze
di cui i più sacri ardori qui si arrendono all'esser vezzi.
Ritorni dunque sconfitto suoi tuoi passi,
ancora fieri e degni del loro rango di maestri,
ancora emananti tutto lo splendore di ciò che palpita tra i tuoi denti,
proiettati tra i sogni e gli ideali, che ad una bieca luce portano adesso i tuoi portenti.

Torni, gentile signore, ad accenderti in un tempio, circoscritto e disilluso,
illuminandoti sul tempo, nel riconoscerti come un intruso.
Cerchi parte al tuo mestiere, spingi e muovi forze
lungo cunicoli offuscati,
scegli di batterti per gioco o per un debito d'orgoglio,
muovi con enfasi le tue membra per risvegliare il più intricato dei desideri;
ti risvegli,
segregato, sepolto, riposto, all'interno del tuo morboso scrigno.
Scorri,
tra inutili ere perdute senza alcun ritegno,
in visioni mai compiute, ma sempre più innalzate
a virtù inconfessate, contrastanti, e non viventi,
nel loro più profondo ribollire, nel sangue e nelle ossa,
di quella supremazia che si è arresa al suo unico vero colpo.
Non v'è tempo e non v'è spazio, adesso, per le tue doti sincere,
dove il tempo chiama l'attimo della rottura,
dell'innalzarsi fino a rompere l'uovo,
del patimento, da cui levi il calice colmo del tuo stesso sangue,
inacidito e ristagnante, dal poltrire delle membra,
colmato però adesso, delle più pregevoli fioriture
ricercate ansiosamente all'atto vivo del folle gesto del divenir mondo,
corrose dall'interno, per dissolverti nelle ceneri brune più sottili,
consapevoli del risveglio al balzo lucente dell'araba fenice.

Ti guardi o' fragile decadente,
ma della tua coppa rigetti indifferente.
Dormi o' debole pezzente,
e dei tuoi liquami ti assopisci dolcemente.

Ti ringrazio per tutti questi colloqui interessanti.