giovedì 17 aprile 2014

Lettera D'Amore

Io non ti amo. Né t'amerò mai veramente.
Questo l'ho compreso.
Vivremo sempre in questo tragico rapporto. C'è poco da dire.
Tu mi offri dal canto tuo troppe poche e fievoli tentazioni, tali che
possano realmente reggere lo spirito compulsivo di un dominio a tutto tondo,
come quello che si propone dall'altro capo, attuato da un bollore imperante
che ottunde dinnanzi a sé ogni vista, priva di decoro, che non sia degna del più sadico confronto.
Io, dal canto mio, mi offro gelido ma sincero in tutto ciò che ho da offriti.
Eccoti.
Eccomi qui, pronto a concederti tutte le mie verità.
Così come tutte le mie obiezioni di coscienza, invero,
sempre bramanti di conoscere oltre ciò che c'è da conoscere,
sempre pronte a concepire tutto ciò che sia ancora da concepire.
Tra i due, quel povero pastorello costretto a muovere di propria inventiva tutto il gregge,
ritrova nel perdersi e ricomporsi il suo vero io,
nel farlo tante di quelle volte, da ledersi e risanarsi
come fosse una condanna,
da rialzarsi, con gran lentezza,
al punto da perdere ogni fiamma pia che gli consenta di fare luce sul lato più profondo della propria scelta.
Anzi, di ciò che gli rimane, egli si trova presto a circoscriversi in poveri lumi sempre più ristretti,
e intensi, oltretutto,
di quel calore che una luce così misera e patita possa manifestare attorno al perimetro della propria immagine.
Io giungo a te con una missiva carica d'odio e disdegno, cui il tempo ne ha sbiadito l'inchiostro,
trasmutando ogni deplorevole sensazione in tinte d'odio e remissione sempre più torbide,
fino a concedersi quest'oggi l'investitura di colei che porta il peso della solitudine,
della delusione,
e della comprensione adesso congiunta.
Questa, ha di lei presto mutato ogni rossore in un'arida consapevolezza,
che di tutto ciò che io avrei da offriti, servirebbe soltanto a soddisfare l'apparenza,
o magari ancora l'appariscenza, di ogni tua richiesta, o del qualsivoglia insulto
che da una come te ci si possa attendere.
E ciò che hai avuto da offrirmi in questo lungo lasso di tempo, ha concupito ben poco,
e mai tanto da prendersi sul serio, ogni mia voglia vera e dal più profondo concepita,
peccando, quantomeno in costanza, nel portare più pestilenza che perseveranza,
laddove i miei banchetti costarono fatiche a coloro che presenziarono in ogni scena messa in atto.
Vedi dunque, con le futili armi che porti in grembo, costringi l'anima mia
nel conseguire quell'inevitabile assunzione di certezza,
una verità,
una, vera,
volta a spegnere definitivamente ogni stimolo sovrano nei tuoi confronti.
Specchio dei miei occhi, mi vedo nella meschina attesa
di uno scempio che, mai colpevole del mio destino, e ancora innocente agli occhi della giustizia,
possa offrirmi una sostanziosa sorte, dalla più dolce ricompensa, della più riprovevole sventura,
che possa espiarmi da tutte le colpe, come auspica ben bene la più vile tra le creature,
e riportarmi lungo la pace, serena, duratura,
laddove lo svolgersi severo dell'innocente mietitura,
lasci distendere i miei occhi,
conducendoli nel pieno riposo che la notte, nel suo grembo bardato d'oro buio,
possa concedermi salvandomi dal più greve peccato mortale,
lasciandomi, amaro, e mai del tutto indifferente, alla colpevole insofferenza
che porti la firma velata della mia più profonda e infima natura.


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