sabato 26 ottobre 2013

La Tirannica Circe dai Pericolosi Profumi

Navigano i fiori della mia impotenza.
Del sublime, una passione
che di più non si può estendere il fato.
Il fascino, l'illusione
e la sfuggevolezza di un fiore mai domato.
Del diletto, vi si nutre con leggerezza,
del diletto, fa propria tutta l'ebbrezza.
La sofferenza, il patire,
un dolore,
che d'antico è stato scritto.
La bellezza ancora
di un tempo che ha saputo mai essermi distinto.
Io mi muovo adesso
tra vaneggio e vanità,
io mi trovo adesso
d'inettitudine e carità.
L'ascesa, la sensazione
l'esser canto per virtù.
Ritrovarsi in ebbre fronde
là dove il gioco spinge in giù.
Soffrire il fascino del disilluso non è cosa da tutti.
Mi ritrovo, mi ripenso,
ammaliato da qualcosa d'altro tempo.
L'essenza è già vista
la forma mi è assai nuova,
io mi perdo
e di me stesso faccio ammenda.
L'offensiva è un rivolgersi verso i muri.
Ritrovarsi ammaestrati
più da un cervo, che di bellezza
e perdizione
ha visto il tramonto in un turbine senza tempo.
Resta dunque il giro del centro
di un etanolo fatto d'ardore e commozione,
in un fetido imputridire
in una vita di ricordi dal tendersi ad orrore.
Salgo il balzo dell'oltretomba,
e prendo il cervo con tutto il cuore.
L'amore, l'amicizia, l'ardore,
d'una regina del tempo;
mi dissolvo nel dolore.
La strage d'un intero popolo
è cosa da nulla
per colei che sfugge.
L'annichilimento di un intero uomo
è vera goduria per colei che giunge.


mercoledì 16 ottobre 2013

L'Anatema di chinarsi a Nettuno

Poi arriva (in)giusto quell'attimo
in cui d'ogni cosa detta, fatta, percepita,
si fa un cumulo di macerie.
Tutto decade,
10 secondi per rendersi conto,
2 minuti per appurarsi,
altri 10 in cerca di verità,
poi allora quei pochi secondi di conferma.
Dunque le prossime ore sono tra lo sconcerto
e l'apprensione
di qualcosa che, non è ben chiaro come possa essersi verificata.
Rivelarsi in tal maniera, è un più che certo segno di un destino
che si diletta a prendersi gioco di se stesso, di raggirarsi
ed inseguirsi in un succedersi di apparizioni, immagini,
scorci rapaci,
o di manifestazioni idilliache, quasi fiabesche,
per poi infine riconcretizzarsi nella rotonditudine giornaliera,
quasi a testimonianza che allora tale miracoloso diletto è possibile
ed ha faccia altresì dura e concreta.
In un attimo, un solo attimo
ogni fatica è perduta,
dismessa nell'oblio,
nell'oscura rimozione, che va facendosi, a dir poco forzata.
Vani pure i tentativi, in disperata agonia,
di un'audace ricerca
dei mezzi perduti e degli appoggi edificati,
per scovare la chiave, quell'appiglio,
che all'attempata memoria avrebbero consentito redenzione
per tali peccati.
Così si conclude e si sfalda un cerchio
volto a sfatare il mito, il tabù,
e il qualsivoglia insfatabile,
rompendosi ad un tratto
come un elastico che, in fin dei conti,
troppo ha esteso il proprio corpo
e che troppo oltre s'è spinto nel volersi muovere e colonizzare
nelle terre più aspre,
ed impervie,
che la vita avesse potuto concedergli.
Il punto morale,
la voragine, è sempre aperta,
e chiama a gran voce nel risucchio di qualsiasi anima eroica
assorta in campagna di guerra,
riduce tutto alla solita sevizia, fatta di ricordi ed olezzi
di una storia che non si degna a metter fine.
Basta un gesto e il cesto
si rompe.
Ecco che allora giunge in tono squillante
la cantilena che inneggia all'ignobile sconfitta
ed alla condizione di eterna dipendenza
e di spettanza
ad un ceppo solido di mancanze,
e sinecure
di cui l'esistenza ha sempre fatto a meno
ed enfatizzato a gran voce la pura ed assoluta inesistenza.
Non è il gesto, non è l'attimo,
ma la condizione di un'eterna ostinata resa
nei confronti di una chimera mai destinata a slegarsi:
la consapevolezza,
l'Anatema di chinarsi a Nettuno.


"It's cold I'm afraid
It's been like this for a day
The water is rising and slowly we're dying
We won't see light again
We won't see our wives again"

sabato 12 ottobre 2013

Ode all'Arte Regia

L'arte è l'unico mezzo che permetta all'uomo di trascendere a Dio.
Quando l'opera è completa, ecco allora che la comunione è lecita di entrambe le parti.
Si potrebbe far dunque della vita un'intera trascesa a Dio e, di conseguenza, d'essa, una grande opera d'arte.
E dato che l'Arte è, in fondo, tutto ciò che l'uomo rende più divino di dio stesso,
si potrebbe dire che l'opera compiuta rappresenti, in ultima analisi, una trascesa da ed all'uomo stesso.
Dove ella porti è difficile asserirlo con certezza, ma dove essa faccia ritorno è ancor più evidente dell'atto stesso al termine del proprio compimento:
il divenire umano è il più grande Artista che il creato abbia mai messo in scena.


giovedì 10 ottobre 2013

L'Avvento del Tepore Purpureo

Impersoni un Signore dall'alito focoso,
discolo, impervio, impavido.
Non sogna, non si agita,
non s'informa, né domanda.
Della realtà fa propaganda.
Egli sa e sa di sapere,
conosce bene ciò che da intendere
si pone al tavolo d'esecuzione.
Allora si spiega, si snoda, si contorce,
ma mai si distorce,
né si annega nel masochistico sopore,
il castigo del mai sentirsi vivo.
Si inserisce,
sceglie il tempo, coglie l'attimo,
mette il dito
e disegna con ardore,
là soltanto, dove s'intende di tracciare,
e con penna fatta di aculei ed auliche finiture;
sceglie il suo tratto:
è nobile e sincero,
certo,
d'esso mai si dubita, d'esso mai si va a sorte.
Dipinge l'effigie d'un avvertito gentiluomo
dalle eroiche fattezze,
avventuriere e già arricchite
d'esperienza incettata in una vita vissuta in guerra.
Egli mai si spegne, mai si arresta,
e dell'animo
e del dominio altrui,
con voluttà,
modella i propri pasti.
Cumula prede su prede,
e miete vittime indistinte né disposte,
lenisce il proprio cuore
soltanto della gioia della conquista.
Cammina, cavalca, calpesta.
Nell'avanzare
ora divora la terra che ha d'innanzi,
la deruba del suo tempo,
ne deturpa poi gli avanzi,
arricchisce ogni istante
di una fulgida zampata,
che al più fragile zaffiro
pone il centro assai rovente.
Si nutre dell'attimo e dell'anticipo,
del furore, della bramosia
d'un briciolo di vita sottratto all'essere,
o al gioco, al diletto,
ad un debito che per tutta una vita
ha dovuto sentir saldato,
e che mai ha riempito le bache casse
di un'esistenza che ha mietuto il proprio corso.
Ciò che rigoglisce,
è la naturale prodezza
in cui lo sciogliersi è mai banale,
e assai lontano dall'incerta e colpevole beatitudine
che il Verbo, tra le ere,
ha giudicato mai degna di morale.
Un'anima ed un corpo
in fluida comunione,
sincera e candida con la natura,
d'un esser nato per le più pregevoli conquiste,
d'un esser volto all'egemonia sul mondo,
fatto per esser esso stesso un mondo rubicondo,
teatro di una scena assai cangiante,
in cui si è sempre in cerca di un inedito costume
e sempre a caccia d'un bersaglio sapido e appagante.
Egli è vivo,
ed in vita rinasce,
come l'araba fenice
arde in furia il proprio corpo.
D'esso genera le forze
e la tempra d'esser sempre acuto ed accorto
nell'atto indomito di alimentare l'inedia pungente
col ferino verso di annullarsi nel niente,
in un omicidio abietto ed essenziale
dall'encomiabile portamento claustrale.
Quindi ad esso compie ritorno,
dopo che dell'idillio e dell'apollineo
ne sia sì fatto il sonno
e nell'attimo che mette in luce le nefandezze
stringe a corte le più scomode incertezze.
Alla morte appende il giogo
e di essa si fa dunque gioco,
ne chiama madre in sé quest'una
cui, la fine di tutte le cose,
riaccende il senso ultimo in nuova luce;
la rossa tintura dona allo spirito quel tepore purpureo
di un eroe,
colui che da tempo il popolo tutto agognava a gran voce.

Ardeva costantemente un fuoco che lo rendeva incandescente.