sabato 13 febbraio 2016

Il Manifesto contro la Scienza - Cap. 3: Perchè la Scienza non Serve

Giunti dunque al tracollo inevitabile del tempo e dello spazio, si deduce che tregua non è concessa da ciò che immune si svolge nel suo sentiero immutabile ed inoltre congiunto a se stesso quando s'inoltra nell'unico atto del concedersi uno scambio.
Si è intenti a parlare di un qualcosa che non vede riscontro alcuno in ciò che egli, il mesto Uomo di Scienza, s'addice a predicare, uno svolgersi costante di pulsioni e fluttuazioni vibranti che non concedono onore, tanto meno onere, neanche al più avverso incanto proteso ad incantare coloro che s'atteggino a mirarne, od oltremodo carpirne, il segreto più celeste.
L'ossequio, la riverenza, lo scambio perpetuo fra i contendenti si scorge inteso in un'ipotesi insondabile, altresì ben solida per coloro che, eroici, ed un po inconsistenti, s'apprestano a scorgervi segni, od ineffabili apparenze, impiastrati di vedute che giusto un po' consentono quel buffo tono d'ebbrezza che poi s'addice alla loro vista.
Che eppure tale ebbrezza sia d'indubbio pregio nella contesa con tale pedanteria è dato dalla sconcezza e dalla cialtroneria, di ciò che l'indomito Uomo, che giochi a crear l'iddio, s'appresta a proferire ed invero profetizzare, stando tutto impettito nel proprio vestitino quale esile burattino che sempre posto a legame vive sotto le redini di una regola più asfissiante.
Seppur tal ebbrezza s'accenna appena ai fuochi, il gesto dell'immane ominide si spegne sotto più ardenti roghi, confesso, reo, lui, del proprio appello alla povertà d'intenti ed alle più riduttive congetture su di un peso che non s'attiene mai a farsi carico, di cui egli non è di sicuro il messere proteso verso l'atto eroico del render conto a tale fame, pesantezza, incombenza, così risoluta da perdersi nel suo vile atto gelido del classificarne gli attrezzi in base al peso e non più al puro e sincero utilizzo ch'essi s'offrano d'improntare.
Inizia dunque la vicissitudine dell'angheria delle vie della logica, si protrae dunque la vigliaccheria, fino alla piena oppressione di ciò che ne detiene il giogo: sopruso e la più scevra sopraffazione delle vie di un cogito che del più intriso ne detiene il mezzo, e metà soltanto dunque, e che si appella con ognuna delle proprie forze poiché si oppone alla stregua dell'Immondo, nei mezzi che gli siano pur concessi.
La burla, il vezzeggio, l'ironia, son tutti modi con cui questa si presenti a turno, nel concedersi al gioco, ogni qualvolta il senso lo abbisogni.
Così perde la bussola lo scevro Uomo d'oltremondo, che si appresta all'atto dello sconvolgersi a danzare in una strada che ha compiuto un cerchio, di cui il perfetto s'avvista solo nel girare lungo e in tondo ad uno stesso luogo, senza mai chiedersi chi è che s'appresti realmente a muoversi, se il mondo, o se son me, l'immondo stesso.
Il calcolo, la misura, la distanza, s'affretta con estrema precisione: attendibilità, validità, "ossequità", "reverenzialità", "untuosità"; ecco che l'Uomo Immondo s'attiene a misurare, misurandone le misure, concedendosi misure d'urgenza per tali misurazioni, che di concreto, di valido, di attinente, si riducono a misurare solo la scelleratezza di un matto che provi a cogliere l'acqua di un oceano in una tazza per poterne conteggiare tutte le onde.
Il grande affollamento, su di cui questa "centellinazione" si scatena, produce, invero, sacrosante verità, parziali, marziane, intese solo per colui che d'illusione si racconta e che s'avvede nell'infausto gesto del poter sentirsi vero, dello sporgersi a sorte nel potersi riflettere ora equiparato a dio, quest'oggi, non di meno, così da risvegliarsi all'indomani di nuovo stanco, rappreso, disilluso, scosceso nell'animo, che protratto verso la giusta mole di verità si spande, colei che chiara, fulgida, splendente, s'incede sospesa dal ventre alla più plumbea estremità: la mente oggidì si sente come un peso imponente sul corpo celeste, che forte, fiero e pio della sbornia precedente, tutt'oggi s'avvede che qualcosa che non quadra.
E' la verità diffusa nelle verità che mistifica il sollazzo oltremodo incestuoso del volgersi a vanità, orchestrato dai propri piaceri più intimi (tra i più latenti), dagli immorali vizi solitari:
la grande somma non fa il totale; il grande caso, pur sistemato, non crea verità: la divide; il grande avvenimento è uno e uno soltanto, quando egli diviene molti, perde la causa prima per cui è stato operato, egli si riconosce in tanti, ma mai più si rivede in se stesso, perde il seme della consapevolezza, l'unico davvero di grande importanza per noi uomini di scienza.
Tutte le cose sono tante, ma in fondo sono solo una.
E' vero senza menzogna, è certo e verissimo tutto ciò che si sente in vetro con se stesso.
Se il vetro è offuscato bensì, ecco che la scienza si deprime, che il vero si disperde, ecco che l'ingegno si inceppa in una sorta di visione mistica, maturata dall'impeto lisergico da cui la pasta di cui s'è detto codesto Uomo impareggiabile, si sfalda in poche lusingherie.
L'Uomo d'oltremondo stia attento, si affondi in qualcosa di più duraturo, di più maturo, di più stabile e meno impeccabile, ché la propria visiera su cui s'è messo un figurino, ella lo inganna raccontandogli storie fiabesche di cui si possano accontentare solo le sue più recondite avvisaglie.
Le paure infondono cattive amicizie, spengono il fiato, concedono pochi lumi alla vista. La paura di quest'Abbietto è di perdersi e di mai ricomporsi, di non esser più burattinaio innamorato della propria immagine favolistica, di cederla e di scinderla in più parti che, nel marasma da lui creato dalla sua stessa vista monoculare, sarebbero impossibili da ritrovare e pertanto, in seguito, da ricomporre.
E' un'immagine di vanitas fissata nel tempo, nel modo e nel linguaggio, e che come epidemia s'è diffusa e di cui non si riesce più a trovare risoluzione tale che possa un poco lucidarne la lente.
In verità, di ciò che il ventre materno si circonda, non si discerne neanche una piccola parte; è come un fiume, che di invisibile ha solo il corpo, ma di cui è più che mai facile per l'uomo che si erige a piena conoscenza, riconoscerne in ogni istante il rapido rintocco; divenire è facile per questo sciogliersi ineffabile, proferire è sadico per Colui il quale s'inchioda al terreno stabile.
Le acque non sono mai realmente dome, riflesse in loro stesse. E se queste si fanno avanti, è bene che chi le venga a cercare lungo il loro percorso s'accerti di non esser da meno ogni qualvolta.
Chi rimane immobile a penzolare nei dogmi della propria pigrizia, scevri oltretutto qualunque onesta "moralità" intellettuale, ecco che non diviene, per lo più sviene in un torpore dal tepore grigiastro, stagna, come immerso nella bruma d'inverno quando questa si appiccica agli occhi ed affioca la vista.
Così, di fatto, l'immagine è semplice da ricalcare, soltanto che essa è già svanita, così come fanno le stelle quando, vanitose e dissolute, spariscono se ci si attarda a guardarle; esse sono già filate via, mentre noi ci affanniamo severi nel domandarci come si fa a starsene lassù e non fornirne mai riscontro.
Ci insegna, dunque, l'esperienza, che di lei, e di lei soltanto, è verità suprema, di cui tutte le altre fittizie regine del regno passato, s'inchinano ogni qualvolta questa faccia presa nel mostrarsi in piena luce.
Di lei c'è scienza e vera cura nel conservarsi d'ogni evento nostrano, così come del ricordo lontano allo stesso tempo, di cui questi Uomini Scienziati siffatti mai si vedono, ma che anzi, nella beffa, si spendono nel tempo per ricucirla di una qualità un po' più sbiadita.
Così si credono di esser dotti, quando invece si ricoprono solo di vezzi, nauseanti ed in sé corrotti.