giovedì 10 ottobre 2013

L'Avvento del Tepore Purpureo

Impersoni un Signore dall'alito focoso,
discolo, impervio, impavido.
Non sogna, non si agita,
non s'informa, né domanda.
Della realtà fa propaganda.
Egli sa e sa di sapere,
conosce bene ciò che da intendere
si pone al tavolo d'esecuzione.
Allora si spiega, si snoda, si contorce,
ma mai si distorce,
né si annega nel masochistico sopore,
il castigo del mai sentirsi vivo.
Si inserisce,
sceglie il tempo, coglie l'attimo,
mette il dito
e disegna con ardore,
là soltanto, dove s'intende di tracciare,
e con penna fatta di aculei ed auliche finiture;
sceglie il suo tratto:
è nobile e sincero,
certo,
d'esso mai si dubita, d'esso mai si va a sorte.
Dipinge l'effigie d'un avvertito gentiluomo
dalle eroiche fattezze,
avventuriere e già arricchite
d'esperienza incettata in una vita vissuta in guerra.
Egli mai si spegne, mai si arresta,
e dell'animo
e del dominio altrui,
con voluttà,
modella i propri pasti.
Cumula prede su prede,
e miete vittime indistinte né disposte,
lenisce il proprio cuore
soltanto della gioia della conquista.
Cammina, cavalca, calpesta.
Nell'avanzare
ora divora la terra che ha d'innanzi,
la deruba del suo tempo,
ne deturpa poi gli avanzi,
arricchisce ogni istante
di una fulgida zampata,
che al più fragile zaffiro
pone il centro assai rovente.
Si nutre dell'attimo e dell'anticipo,
del furore, della bramosia
d'un briciolo di vita sottratto all'essere,
o al gioco, al diletto,
ad un debito che per tutta una vita
ha dovuto sentir saldato,
e che mai ha riempito le bache casse
di un'esistenza che ha mietuto il proprio corso.
Ciò che rigoglisce,
è la naturale prodezza
in cui lo sciogliersi è mai banale,
e assai lontano dall'incerta e colpevole beatitudine
che il Verbo, tra le ere,
ha giudicato mai degna di morale.
Un'anima ed un corpo
in fluida comunione,
sincera e candida con la natura,
d'un esser nato per le più pregevoli conquiste,
d'un esser volto all'egemonia sul mondo,
fatto per esser esso stesso un mondo rubicondo,
teatro di una scena assai cangiante,
in cui si è sempre in cerca di un inedito costume
e sempre a caccia d'un bersaglio sapido e appagante.
Egli è vivo,
ed in vita rinasce,
come l'araba fenice
arde in furia il proprio corpo.
D'esso genera le forze
e la tempra d'esser sempre acuto ed accorto
nell'atto indomito di alimentare l'inedia pungente
col ferino verso di annullarsi nel niente,
in un omicidio abietto ed essenziale
dall'encomiabile portamento claustrale.
Quindi ad esso compie ritorno,
dopo che dell'idillio e dell'apollineo
ne sia sì fatto il sonno
e nell'attimo che mette in luce le nefandezze
stringe a corte le più scomode incertezze.
Alla morte appende il giogo
e di essa si fa dunque gioco,
ne chiama madre in sé quest'una
cui, la fine di tutte le cose,
riaccende il senso ultimo in nuova luce;
la rossa tintura dona allo spirito quel tepore purpureo
di un eroe,
colui che da tempo il popolo tutto agognava a gran voce.

Ardeva costantemente un fuoco che lo rendeva incandescente.



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